Il dolo Generico Intenzionale
L’art. 323 del codice penale valuta abusiva la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio consistita nella “violazione di norme di legge o di regolamento”, ovvero nella violazione dell’obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, e sanziona il soggetto agente qualora procuri in modo intenzionale “a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto”.
Quanto al bene giuridico tutelato dalla norma in esame, alcuni lo ravvisano nel buon andamento della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.). Più precisamente, il concetto di «buon andamento della P.A.» è ravvisato nella efficienza della P.A. intesa come capacità di perseguire i fini che la legge le assegna in aderenza all’interesse pubblico.
Altri, invece, pur individuando il bene protetto nei principi di cui all’articolo 97 Cost., ritengono che questo sia costituito oltre che dal buon andamento anche dalla imparzialità della P.A.
La violazione di norme di legge o di regolamento, inoltre, è configurabile non solo allorché la condotta tenuta dall’agente sia in contrasto con il significato letterale, logico o sistematico della disposizione di riferimento, ma anche quando essa contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma, concretandosi in uno «svolgimento della funzione o del servizio» che oltrepassa ogni possibile opzione attribuita al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio per realizzare tale fine.
Il momento consumativo del reato
Una delle possibili configurazioni del reato è quella consistente nell’omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto.
Il legislatore ha introdotto un dovere di astensione per i pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio che si trovino in una situazione di conflitto di interessi. Ne consegue che il mancato rispetto di tale dovere comporta l’integrazione del reato anche quando faccia difetto, per il procedimento ove l’agente è chiamato ad operare, una specifica disciplina della astensione, o nei casi in cui la disciplina eventualmente esistente riguardi un numero più ridotto di ipotesi o sia priva di carattere cogente.
Al fine di integrare il reato non basta più la sola intenzione di arrecare un ingiusto vantaggio o un ingiusto danno ma occorre la effettiva produzione di tale ingiusto vantaggio o ingiusto danno, che costituiscono l’evento del reato ed identificano il momento consumativo del medesimo.
Il nuovo testo risolve in modo definitivo anche la disputa sulla ammissibilità del tentativo, che con la nuova formulazione della norma è senz’altro configurabile. In tal senso, il reato di abuso d’ufficio, avendo perso la natura di reato di pericolo, può dirsi consumato solamente se, per effetto della indebita condotta posta in essere dal soggetto agente mediante un comportamento tipico, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio abbiano effettivamente procurato a sé o ad altri un ingiusto profitto di carattere patrimoniale ovvero abbiano arrecato ad altri un danno ingiusto, i quali devono essere specificamente voluti dallo stesso agente e debbono essere posti in essere in rapporto di diretta, ancorché non esclusiva, derivazione dalla violazione di norme ovvero dalla violazione del divieto di astensione.
In mancanza, il reato non potrà dirsi consumato, potendo risultare, tuttavia, configurabile il tentativo punibile, ricorrendone tutti i presupposti e le condizioni di cui all’art. 56 c.p. Si ritiene, altresì, in dottrina, che tra la violazione di legge o di regolamento, posta in essere dall’agente, e l’evento debba sussistere un nesso di derivazione causale o concausale, la qual cosa attribuirebbe al delitto in commento natura di «reato causalmente orientato».
Il dolo intenzionale e il reato di danno
Quanto all’elemento soggettivo della fattispecie di abuso d’ufficio, con la nuova formulazione dell’art. 323 c.p. sembra aver trovato espresso riconoscimento la figura del dolo intenzionale.
A differenza dell’art. 323 c.p. previgente, che configurava l’abuso come reato a consumazione anticipata o reato di pura condotta, incentrato sul dolo specifico (ovvero sulla finalità di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio o di arrecare ad altri un danno ingiusto), il legislatore del 1997 ha configurato l’abuso d’ufficio come reato di danno, richiedendo che venga procurato a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arrecato un danno ingiusto.
Trasformato l’abuso d’ufficio da reato di pura condotta a dolo specifico (in cui l’effettivo raggiungimento della finalità extrafattuale del vantaggio o del danno non è rilevante ai fini dell’integrazione) in reato di danno, caratterizzato dalla necessità dell’evento, è evidente che si richiede qualcosa di più del comune dolo diretto: in particolare, il dolo richiesto dalla norma è generico con riferimento alla condotta (sono sufficienti la coscienza e volontà di violare norme di legge e regolamento ovvero di non osservare l’obbligo di astensione, a prescindere dalle modalità con le quali ciò avviene) ed assume la forma del dolo intenzionale rispetto all’evento (conseguimento del vantaggio patrimoniale o danno) che completa la fattispecie.
La volontà di violare
In altri termini, il dolo generico intenzionale è da intendersi come coscienza e volontà di violare una norma di legge o di regolamento ovvero un obbligo di astensione al fine precipuo di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o di arrecare ad altri un danno altrettanto ingiusto.
Quindi, l’intenzionalità richiesta oggi dalla norma incriminatrice rende punibili solo ed esclusivamente quelle condotte dirette immediatamente ad assicurare e che assicurano il vantaggio patrimoniale proprio o altrui ovvero un danno ingiusto. Ciò, ovviamente, porta altresì a restringere notevolmente la portata incriminatrice della norma ed ad individuare con maggiore facilità gli atteggiamenti dolosi meritevoli di essere perseguiti penalmente.