Orientamenti e fattispecie
L’appalto è un contratto connotato da una serie di elementi qualificanti quali la consensualità, l’informalità, l’onerosità, oltre ad avere effetti obbligatori, di carattere personale (infatti, ci si affida ad un appaltatore piuttosto che ad un altro in considerazione della sua capacità ed abilità).
A differenza di quanto avviene nel contratto ad esecuzione continuata o periodica, nell’appalto l’interesse del creditore (committente) viene soddisfatto in un unico momento, che è quello del passaggio dell’opera ultimata in proprietà di questi.
Poiché l’art. 1655 c.c. prescrive che l’opera o il servizio vadano compiuti con gestione a rischio dell’imprenditore, allora l’obbligazione di quest’ultimo potrà essere fatta rientrare nell’ampia categoria delle obbligazioni di risultato.
Contratto di appalto e altre fattispecie contrattuali a confronto
Il contratto di appalto si distingue dal contratto d’opera (art. 2222 del codice civile) per il fatto che il primo è contrassegnato dall’esistenza di un’organizzazione di impresa presso l’appaltatore, mentre il secondo è caratterizzato dalla prestazione di un lavoro da compiersi personalmente dall’obbligato o dal di lui nucleo familiare.
Il contratto di appalto si distingue altresì dal contratto di compravendita.
In quest’ultimo caso, solitamente, la differenza tra le due fattispecie contrattuali viene individuata nel fatto che il primo ha per oggetto un facere che si concreta nel compimento di un’opera o un servizio, mentre il secondo ha per oggetto un dare. In altri termini, mentre l’appalto ha la precipua funzione di realizzare un opus attraverso l’attività realizzatrice dell’appaltatore, nella vendita ciò che rileva per il compratore è che la proprietà venga trasferita.
Inoltre, mentre il secondo presuppone l’esistenza di una cosa, il primo presuppone l’inesistenza.
La distinzione con la c.d. vendita di cosa futura
La distinzione, rilevante anche per i riflessi in punto di disciplina di garanzia per vizi e trasferimento del rischio nel caso di perimento del bene, si complica nel caso in cui il contratto d’appalto venga raffrontato al contratto di compravendita di cosa futura di cui all’articolo 1472 c.c.
Attraverso l’istituto della vendita di cosa futura, che rappresenta un’applicazione del principio generale di cui all’art. 1348 c.c., le parti convengono sul trasferimento di un bene futuro, perché non ancora esistente ovvero per la cui venuta ad esistenza è necessaria un’attività realizzatrice, per cui all’obbligazione di dare potrebbe affiancarsi una obbligazione di facere del venditore stesso.
In merito alla natura giuridica di tale ultima figura contrattuale, il trasferimento del bene in capo al compratore si realizza solo nel momento in cui il bene viene ad esistenza. In altri termini, il momento traslativo non è già quello del consenso regolarmente prestato, ma quello della venuta ad esistenza del bene.
In tal modo viene anche tutelato l’interesse del compratore a non assumersi il rischio della mancata venuta ad esistenza del bene o del perimento dello stesso quando si trovi ancora nella sfera di controllo dell’alienante.
Quale criterio utilizzare per individuare la fattispecie contrattuale?
Preferibile risulta il criterio cd. soggettivo (il più seguito dalla giurisprudenza) che mira all’accertamento della effettiva volontà delle parti, come estrinsecata nell’accordo contrattuale.
Per volontà delle parti deve intendersi non l’intenzione soggettiva, cioè l’opinione che esse abbiano avuto della natura del rapporto, ma l’intento empirico che le parti hanno dimostrato di voler conseguire: se dal contratto risulta che la vera e unica finalità del negozio sia l’ottenimento della cosa ed il lavoro sia soltanto il mezzo per produrla si avrà una vendita di cosa futura, per contro sarà un contratto di appalto se l’intento conseguito sarà di ottenere l’attività realizzatrice.
Tale criterio distintivo rimane difatti valido anche quando il contratto abbia ad oggetto il trasferimento della proprietà di un immobile da costruire.
In giurisprudenza è stato più volte deciso che il contratto avente ad oggetto il trasferimento della proprietà di un’area edificabile in cambio di un fabbricato (o di alcune sue parti) da costruire sulla stessa superficie ad opera del cessionario, può integrare sia un contratto di permuta di un bene esistente (il suolo su cui sorgerà l’edificio) con un bene futuro (l’immobile costruito), sia un contratto misto, costituito con gli elementi della vendita e dell’appalto.
Si configura il primo contratto se nel sinallagma negoziale assuma rilievo centrale il trasferimento reciproco della proprietà attuale con la cosa futura e l’obbligo di erigere l’edificio sia restato su un piano accessorio e strumentale, mentre si ravvisa l’altro contratto, qualora la costruzione del fabbricato sia stata al centro della volontà delle parti e l’alienazione dell’area abbia costituito soltanto il mezzo per conseguire l’obiettivo primario.
Garanzia per i vizi e le difformità. L’orientamento giurisprudenziale
In ordine all’oggetto della garanzia per difformità e vizi nell’appalto vanno rammentate alcune pronunce della Suprema Corte di cassazione (Cass., 09 settembre 2013, n. 20644 e Cass., 3 gennaio 2013, n. 84), che hanno chiarito come l’ambito applicativo dell’art. 1669 c.c. non è limitato ai soli gravi difetti della costruzione afferenti il bene principale, come il corpo di fabbrica nei suoi elementi strutturali o i singoli appartamenti, ma ogni deficienza e alterazione, anche di una parte condominiale, che intacchi in modo significativo sia la funzionalità che la normale utilizzazione dell’opera, senza che abbia rilevanza l’esiguità della spesa per l’eliminazione del vizio.
Sulla ripartizione dell’onere della prova circa l’esistenza dei vizi si segnala inoltre la sentenza della Corte di cassazione del 9 agosto 2013, n. 19146, che ha individuato il discrimine nella accettazione espressa o tacita dell’opera.
Secondo la pronuncia prima della accettazione il committente deve meramente allegare l’esistenza dei vizi, mentre l’appaltatore sarà gravato della prova sulla conformità dell’opera al contratto e alle regole dell’arte; se invece l’opera sia stata già accettata, il committente, che di essa ne ha ormai la disponibilità fisica e giuridica, dovrà dimostrare l’esistenza dei vizi e le conseguenze dannose lamentate.
Avv. Iacopo Correa